Quarta parte del racconto intitolato Marcella tratto dal libro “Il berrettino rosso” (Luglioprint, Trieste, 2017) che raccoglie le storie di Istriani ospiti del Centro Raccolta Profughi di Padriciano (conosciuto come “il campo”) unica struttura di questo tipo assurta a Museo di Carattere Nazionale.
Marcella alzò gli occhi e fissandolo rispose:
”Ma gnente żio, lui no ghe entra, nol ga fato gnente; i ga ża trovà el ladro. Ma come volè che Giusto robi qualchicossa, ma no lo cognossè de fioi, żio?”.
Giovanni guardò verso il bancone dell’oste e poi le disse: ”E że proprio par quel, che lo go relevàdo mi, che volevo veder cossa che ve ga fato ‘sti taliani dela malora par farve diventar dei delinquenti.”
A sentir quelle parole, Marcella si alzò e rimase a fissare lo zio a bocca aperta; non ce l’aveva su con loro ma con gli Italiani, e perché? ”Sèntite alo; ti e to marì se colpi che Giusto że vignudo via3; lu el gavessi restà fora con noialtri, ma el te że ‘fessionado e el że vignudo Trieste morir de fame. Do el że desso? Ancora in prison?”. In quel momento Marcella si ricordò che effettivamente zio Giovanni aveva insistito molto per far restare Giusto in Istria, ma fratello e sorella, loro due, non volevano separarsi. Chiese: ”E come lo gavè savudo vu żio?”
Sempre con gli occhi fissi sull’oste, lo zio disse: ”Ah, że vignuda la milizia avisarne che se vedemo Giusto, o ti, dovemo subito ciamarli parché gavè robà oro qua a Trieste. Mi ghe go subito dito che no pol esser una roba compagna, che ve go relevàdo mi, ah” e si batté il petto con la mano aperta a sottolineare il suo operato; e continuò: “ e che se onesti e per ben, ma sa… mi no so dopo, in Italia, cossa che że nato, se gavè cambiado, ah!”
Marcella si risedette, prese la mano dello zio tra le sue e, sollevata per quella prova di fiducia ed amore data dallo zio alla polizia, fissandolo negli occhi gli rispose: ”Semo sempre quei żio, e ve volemo sempre un gran ben. La roba i la ga trovada e noi semo inocenti żio.”
Alzandosi, Giovanni baciò la nipote sulla nuca; ”Bon alora se że duto a posto, mi desso dibòto torno casa; ‘dò posso trovar Giusto mio, ah? Ti sa ti?”
Con grande malincuore Marcella disse: ”No żio, volevo proprio anca mi andar in cità veder se lo trovo; el se vargogna povero fio, anca se nol ga nissuna colpa, ma savè come che ‘l że lu, riguardoso e superbo. No savessi proprio dove dirve de andar.”
Si alzarono entrambi e lo zio andò a pagare gli ottavi di vino; mentre lo guardava parlare con l’oste della qualità del vino, Marcella si vergognò di non avere i soldi per il biglietto della corriera e decise di ritornare a casa. Perciò quando lo zio le propose di aspettare con lui fino all’arrivo della prossima corriera, lei accettò di buon grado, contenta di stare ancora un poco con qualcuno della sua famiglia e di scambiare quattro parole; negli ultimi tempi non sempre ne aveva voglia o soltanto non ne aveva l’occasione. La zia, i cugini, la casa, la nuova scuola slava….ecco che arrivò la corriera, baci e saluti e già zio Giovanni salutava dal finestrino del fondo della corriera che diventava sempre più piccola.
Marcella rimase per un poco in mezzo alla strada asfaltata, guardando come in trance il fogliame dei bassi alberi della radura di fronte; poi si girò e passò di nuovo attraverso il cancello d’ingresso, per la quarta volta nella giornata.
Arrivata davanti alla sua baracca, si sedette sul secondo gradino e si tolse gli scarponi di Alfredo che ancora indossava; si meravigliò che lo zio non le avesse detto niente per quelle scarpe insolite e sempre pensando a lui e sorridendo, entrò nella baracca.
Quella sera Alfredo tornando a casa trovò Marcella che lo aspettava all’esterno dell’ingresso principale, sulla strada provinciale; “Ohi ohi, cossa nassi desso?” le disse sinceramente curioso e preoccupato.
”Ma gnente, volevo star un poco sola con ti; cossa se podessimo permèter una polpèta e un otàvo in osteria?” gli chiese Marcella prendendolo sottobraccio.
“Ma sicuro moglie mia, e cossa festegemo?” chiese Alfredo guardando dietro le spalle se qualcuno li aveva visti dirigersi verso il paese invece che entrare nel Campo.
“Gnente, che te voio ben, e che voio andar dimandarghe a mia cugina Silvana se la ne ospitassi per un poco casa sua, żo a Trieste. Mi podessi lavorar invesse che spetarte qua, senza far gnente duto el giorno4, e meter via un do soldi; me ga dito siora Armida che la Radetti ga sempre un saco de triestine che serca done de servìssio. Alfredo te prego, no dirme de no .”
Alfredo rimase a bocca aperta e non rispose; le mise un braccio attorno alle spalle e si girò verso Padriciano, rallentando il passo ogni tanto come se volesse dirle qualcosa e non ne avesse il coraggio. Poi il braccio scese alla vita, e la cinse con fermezza; a quel punto la girò verso di sé e la baciò sulla bocca.
“Mi veramente…, sa.., no savevo proprio come dirte, per via de Giusto sa…” sentendo parlare di suo fratello, Marcella si irrigidì e si fermò; lo guardò dritto dritto negli occhi, ma non disse nulla.
E Alfredo continuò: “Si, per via de tuo fradel, no savevo come dirte… el mio paròn me ga dito che se resto come guardian del cantier posso dormir là, el me dà una camera e cusìna e cesso; no sule scale sa, drento, solo nostro.”
Marcella si ritrasse dal suo abbraccio, lo fissò incredula negli occhi e buttandogli le braccia al collo urlò: “E cossa te spetavi de dirme? No te podevi dirme subito!”
Quella sera Marcella e Alfredo fecero molto tardi; il portone d’ingresso del Campo era chiuso e dovettero passare per un passaggio tra le maglie della rete di cinta per rientrare nella loro baracca. Si attardarono anche lì ancora un poco, e sentirono altri sussurri e sospiri nell’oscurità; c’erano tanti giovani e tanti innamorati in quel Campo.
Appena giunti in prossimità della loro baracca, si tolsero le scarpe per non far rumore ma ciononostante sentirono un implacabile… “Schhhh” giungere da qualche parte.
La felicità per la notizia appresa quella sera e quel poco di vino che avevano bevuto, avevano messo di buon umore i due giovani sposi; a sentire quel comando: “Schhh”, Marcella si coprì il viso con un lembo del cappotto per soffocare le risate, ma Alfredo non aveva dove nascondere il viso e la sua risata risuonò forte e virile nel silenzio della notte.
“Cossa gavè de rider? Disgrassiai, cossa że ore de rider queste? Dimani ghe dirò mi al capo-campo come che se comportè voialtri due, mussi che no se altro.”.
Continuando a ridere e tenendosi la pancia, Alfredo disse: “Si, si, va ben, bonanote. Domani, sì, domani..” e con gesto complice baciò ancora una volta sulla bocca la moglie; era certo che non avrebbero ancora per molto dormito in una baracca di legno, in un cigolante letto a castello, e con estranei accanto.
Scritto sulla base dei ricordi di Maria Bosdachin, nata a Buie d’Istria il 16 giugno 1937, profuga da Umago d’Istria, ospite del Campo Profughi di Padriciano, parlando di un cugino.